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domenica 24 ottobre 2010

Galileo Galilei: "Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo" passi scelti


Grandezza e complessità dell'opera divina


SALV. Troppo mi par che ci arroghiamo, signor Simplicio, mentre vogliamo che la sola cura di noi sia l'opera adequata ed il termine oltre al quale la divina sapienza e potenza niuna altra cosa faccia o disponga: ma io non vorrei che noi abbreviassimo tanto la sua mano, ma ci contentassimo di esser certi che Iddio e la natura talmente si occupa al governo delle cose umane, che piú applicar non ci si potrebbe quando altra cura non avesse che la sola del genere umano; il che mi pare con un accomodatissimo e nobilissimo esempio poter dichiarare, preso dall'operazione del lume del Sole, il quale, mentre attrae quei vapori o riscalda quella pianta, gli attrae e la riscalda in modo, come se altro non avesse che fare; anzi nel maturar quel grappolo d'uva, anzi pur quel granello solo, vi si applica che piú efficacemente applicar non vi si potrebbe quando il termine di tutti i suoi affari fusse la sola maturazione di quel grano. Ora, se questo grano riceve dal Sole tutto quello che ricever si può, né gli viene usurpato un minimo che dal produrre il Sole nell'istesso tempo mille e mill'altri effetti, d'invidia o di stoltizia sarebbe da incolpar quel grano, quando e' credesse o chiedesse che nel suo pro solamente si impiegasse l'azione de' raggi solari. Son certo che niente si lascia indietro dalla divina Providenza di quello che si aspetta al governo delle cose umane; ma che non possano essere altre cose nell'universo dependenti dall'infinita sua sapienza, non potrei per me stesso, per quanto mi detta il mio discorso, accomodarmi a crederlo: tuttavia, quando pure il fatto stesse in altra maniera, nessuna renitenza sarebbe in me di credere alle ragioni che da piú alta intelligenza mi venissero addotte. In tanto, quando mi vien detto che sarebbe inutile e vano un immenso spazio intraposto tra gli orbi de i pianeti e la sfera stellata, privo di stelle ed ozioso, come anco superflua tanta immensità, per ricetto delle stelle fisse, che superi ogni nostra apprensione, dico che è temerità voler far giudice il nostro debolissimo discorso delle opere di Dio, e chiamar vano o superfluo tutto quello dell'universo che non serve per noi.


L'importanza delle sensate esperienze



SIMP. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore.
SALV. Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica piú a cercar d'intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è piú vergognosa che 'l sentir nelle publiche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all'avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l'onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago infinito, del quale in tutt'oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.



Contro l'ottusità degli aristotelici



SALV. Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte in cielo, e' non fusse per mutar opinione e per emendar i suoi libri e per accostarsi alle piú sensate dottrine, discacciando da sé quei cosí poveretti di cervello che troppo pusillanimamente s'inducono a voler sostenere ogni suo detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie, un voler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data l'autorità ad Aristotile, e non esso che se la sia usurpata o presa; e perché è piú facile il coprirsi sotto lo scudo d'un altro che 'l comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d'allontanarsi un sol passo, e piú tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono impertinentemente negar quelle che veggono nel cielo della natura.
SAGR. Questi tali mi fanno sovvenire di quello scultore, che avendo ridotto un gran pezzo di marmo all'immagine non so se d'un Ercole o di un Giove fulminante, e datogli con mirabile artifizio tanta vivacità e fierezza che moveva spavento a chiunque lo rimirava, esso ancora cominciò ad averne paura, se ben tutto lo spirito e la movenza era opera delle sue mani; e 'l terrore era tale, che piú non si sarebbe ardito di affrontarlo con le subbie e 'l mazzuolo.
SALV. Io mi son piú volte maravigliato come possa esser che questi puntuali mantenitori d'ogni detto d'Aristotile non si accorgano di quanto gran progiudizio e' sieno alla reputazione ed al credito di quello, e quanto, nel volergli accrescere autorità, gliene detraggano; perché, mentre io gli veggo ostinati in voler sostener proposizioni le quali io tocchi con mano esser manifestamente false, ed in volermi persuadere che cosí far convenga al vero filosofo e che cosí farebbe Aristotile medesimo, molto si diminuisce in me l'opinione che egli abbia rettamente filosofato intorno ad altre conclusioni a me piú recondite: ché quando io gli vedessi cedere e mutare opinione per le verità manifeste, io crederei che in quelle dove e' persistessero, potessero avere salde dimostrazioni, da me non intese o sentite.



Contro il principio di autorità



SAGR. Mi trovai un giorno in casa di un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l'origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa controversia tra i medici galenisti ed i peripatetici; e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi ad un gentil uomo ch'egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato il tutto, gli domandò s'ei restava ben pago e sicuro, l'origine de i nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispose: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d'Aristotile non fusse in contrario, che apertamente dice i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera».
SIMP. Signori, io voglio che voi sappiate che questa disputa dell'origine de i nervi non è miga cosí smaltita e decisa come forse alcuno si persuade.
SAGR. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a cosí sensata esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d'Aristotile, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit.
SIMP. Aristotile non si è acquistata sí grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne' suoi libri, che se ne sia formata un'idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla mente; perché e' non ha scritto per il volgo, né si è obligato a infilzare i suoi silogismi col metodo triviale ordinato, anzi, servendosi del perturbato, ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che par che trattino di ogni altra cosa: e però bisogna aver tutta quella grande idea, e saper combinar questo passo con quello, accozzar questo testo con un altro remotissimo; ch'e' non è dubbio che chi averà questa pratica, saprà cavar da' suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile, perché in essi è ogni cosa.
SAGR. Ma, signor Simplicio mio, come l'esser le cose disseminate in qua e in là non vi dà fastidio, e che voi crediate con l'accozzamento e con la combinazione di varie particelle trarne il sugo, questo che voi e gli altri filosofi bravi farete con i testi d'Aristotile, farò io con i versi di Virgilio o di Ovidio, formandone centoni ed esplicando con quelli tutti gli affari de gli uomini e i segreti della natura. Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? io ho un libretto assai piú breve d'Aristotile e d'Ovidio, nel quale si contengono tutte le scienze, e con pochissimo studio altri se ne può formare una perfettissima idea: e questo è l'alfabeto; e non è dubbio che quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonanti o con quell'altre, ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l'accozzare un poco di questo con un poco di quello e di quell'altro, figurando uomini, piante, fabbriche, uccelli, pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili, senza che su la tavolozza sieno né occhi né penne né squamme né foglie né sassi: anzi pure è necessario che nessuna delle cose da imitarsi, o parte alcuna di quelle, sieno attualmente tra i colori, volendo che con essi si possano rappresentare tutte le cose; ché se vi fussero, verbigrazia, penne, queste non servirebbero per dipignere altro che uccelli o pennacchi.


L'acutezza dell'ingegno umano


SALV. L'intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l'intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all'infinità è come un zero; ma pigliando l'intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l'intelletto umano ne intende alcune perfettamente, e ne ha assoluta certezza; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore.
SIMP. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito.
SALV. Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità o d'ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza, sí come niente diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto non sia fatto. Ma dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente piú eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito: e dove noi, per esempio, per guadagnar la scienza d'alcune passioni del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle piú semplici e quella pigliando per sua definizione, passiamo con discorso ad un'altra, e da questa alla terza, e poi alla quarta, etc., l'intelletto divino con la semplice apprensione della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso, tutta la infinità di quelle passioni; le quali anco poi in effetto virtualmente si comprendono nelle definizioni di tutte le cose, e che poi finalmente, per esser infinite, forse sono una sola nell'essenza loro e nella mente divina. Il che né anco all'intelletto umano è del tutto incognito, ma ben da profonda e densa caligine adombrato, la qual viene in parte assottigliata e chiarificata quando ci siamo fatti padroni di alcune conclusioni fermamente dimostrate e tanto speditamente possedute da noi, che tra esse possiamo velocemente trascorrere. Or questi passaggi, che l'intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l'intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un instante, che è l'istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l'intender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d'infinito intervallo superato dal divino; ma non però l'avvilisco tanto, ch'io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto maravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle piú eccellenti.
SAGR. Io son molte volte andato meco medesimo considerando, in proposito di questo che di presente dite, quanto grande sia l'acutezza dell'ingegno umano; e mentre io discorro per tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sí nelle arti come nelle lettere, e poi fo reflessione sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere non solo di ritrovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi reputo poco meno che infelice. S'io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico a me medesimo: "E quando sapresti levare il soverchio da un pezzo di marmo, e scoprire sí bella figura che vi era nascosa? quando mescolare e distendere sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano?" S'io guardo quel che hanno ritrovato gli uomini nel compartir gl'intervalli musici, nello stabilir precetti e regole per potergli maneggiar con diletto mirabile dell'udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti e sí diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia riempie chi attentamente considera l'invenzion de' concetti e la spiegatura loro? Che diremo dell'architettura? che dell'arte navigatoria? Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s'immaginò di trovar modo di comunicare i suoi piú reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell'Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa de' nostri ragionamenti di questo giorno: ed essendo passate le ore piú calde, il signor Salviati penso io che avrà gusto di andare a godere de i nostri freschi in barca; e domani vi starò attendendo amendue per continuare i discorsi cominciati, etc.


Diffalcare gli impedimenti della materia 

SALV. Adunque, tuttavolta che in concreto voi applicate una sfera materiale a un piano materiale, voi applicate una sfera non perfetta a un piano non perfetto; e questi dite che non si toccano in un solo punto. Ma io vi dico che anco in astratto una sfera immateriale, che non sia sfera perfetta, può toccare un piano immateriale, che non sia piano perfetto, non in un punto, ma con parte della sua superficie; talché sin qui quello che accade in concreto, accade nell'istesso modo in astratto: e sarebbe ben nuova cosa che i computi e le ragioni fatte in numeri astratti, non rispondessero poi alle monete d'oro e d'argento e alle mercanzie in concreto. Ma sapete, signor Simplicio, quel che accade? Sí come a voler che i calcoli tornino sopra i zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di casse, invoglie ed altre bagaglie, cosí, quando il filosofo geometra vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell'astratto né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa fare i conti giusti.

 

sabato 23 ottobre 2010

A proposito di massimi sistemi (testo teatrale)



Il rapporto degli uomini rinascimentali con la natura
La lotta contro il principio di autorità


GALILEO:
Le città sono piccole, le teste altrettanto. E sono piene di superstizioni.
Ma ora noi diciamo: visto che è così, così non deve rimanere.
Poiché ogni cosa si muove.
Mi piace pensare che tutto sia cominciato dalle navi. Sempre, a memoria d’uomo, le navi avevano strisciato lungo le coste, ma a un tratto se ne allontanarono e iniziarono a solcare i mari. Allora si sparse una voce: esistono nuovi continenti. E da quando le nostre navi vi approdano, i continenti ridendo dicono: il grande e temuto mare non è che un po’ d’acqua. E’ nata una gran voglia di investigare le cause prime di tutto. Ogni giorno si trova qualcosa di nuovo. Perfino i centenari si fanno gridare all’orecchio dai giovani le ultime scoperte.
Molto è già stato trovato, ma ancora di più è quel che resta da scoprire.
Per duemila anni l’umanità ha creduto che il sole e tutte le costellazioni celesti le girassero attorno. Papa e cardinali, principi e scienziati, condottieri e mercanti, pescivendole e scolaretti hanno creduto di stare immobili dentro una sfera di cristallo. Ma ora ne stiamo uscendo, e sarà un grande viaggio.
A Siena, quand’ero giovane, vidi una volta dei muratori discutere per alcuni minuti intorno al modo di spostare dei blocchi di granito. Alla fine, decisero di abbandonare un metodo vecchio di mille anni per adottare una nuova disposizione di funi, più efficace.
In quel momento capii che l’evo antico era finito e cominciava una nuova era.
Presto l’umanità avrà idee chiare sul luogo in cui vive. Non le basta più quello che sta scritto nei libri antichi.
Dove per tanti secoli ha dominato le fede, ora domina il dubbio. Tutti dicono: d’accordo, sta scritto nei libri, ma adesso lasciate un po’ che vediamo noi stessi.
Presto sulle piazze dei mercati si discuterà di astronomia. Anche i figli delle pescivendole andranno a scuola. E agli abitanti delle nostre città, assetati di cose nuove, piacerà una nuova astronomia che faccia muovere anche la terra.
Si è sempre detto che le costellazioni sono fissate a una volta di cristallo, in modo che non possano cadere. Ma adesso abbiamo preso coraggio e lasciamo che si muovano nelle vastità, senza aggancio; e sono tutte impegnate in lunghi viaggi come le nostre navi. E la terra allegramente ruota intorno al sole, e insieme a lei ruotano pescivendole, mercanti, principi e cardinali. E anche il papa.
Ma lunga e difficile è la strada che dovremo percorrere per arrivare ad essere convinti di tutto ciò. Fino ad ora l’autorità degli antichi pensatori, e di Aristotele in primo luogo, è rimasta immutata e intangibile. Sono passati venti secoli, ma nessuno osa modificare una virgola di quei testi.
Essi sono rassicuranti, come le favole che i nonni ci raccontavano quando eravamo bambini. Per nulla al mondo avremmo accettato che una sola parola di quelle favole venisse modificata.
Aristotele ha detto, e se lo ha detto lui nessuno osa opporsi.
Sentite che cosa capitò un giorno in casa di un medico molto stimato in Venezia, dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, si riunivano talvolta a veder qualche ricerca di anatomia condotta da un dotto, diligente e pratico anatomista. Accadde, quel giorno, che si andava cercando l'origine dei nervi, argomento su cui vi è una famosa controversia tra i medici galenisti ed gli aristotelici; sappiamo infatti che i primi ritengono che i nervi traggano la loro origine dal cervello, mentre i secondi, sulla scorta dei testi di Aristotele, hanno sempre sostenuto che i nervi derivino tutti quanti dal cuore.

ANATOMISTA:
Tutti potete vedere come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo dei nervi si va poi distendendo per la spinale e si dirama per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo arriva al cuore. Sono contento che voi, che siete un grande filosofo aristotelico, possiate constatare, dopo aver con grande attenzione scoperto ed esaminato il tutto, che le cose stanno in modo molto diverso rispetto a quel che affermava Aristotele. Che ne dite?

ARISTOTELICO
Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d'Aristotele non fosse in contrario, che chiaramente dice i nervi nascere dal cuore, bisognerebbe per forza ammetterla per vera. Ma è evidente che tutti stiamo sbagliando, visto che i grandi filosofi non possono dire cose false, mentre i nostri occhi ben possono ingannarci.

ANATOMISTA:
Contro a una così sensata esperienza, dunque, voi non producete altre esperienze o ragioni, ma la sola autorità ed il puro ipse dixit. Questo è esattamente il vostro costume: non vi confrontate con la realtà, così come la possiamo indagare attraverso l’uso dei sensi e della ragione, ma vi rifate sempre e solo alle affermazioni del vostro antico maestro, anche quando queste sono palesemente assurde.

GALILEO:
E quando non riescono a trovare nei testi di Aristotele la risposta a qualche loro domanda, sentite quale scelta adottano, sentitelo per bocca di Simplicio, uno dei più cocciuti seguaci della antica scuola.

SIMPLICIO:
Aristotele non si è acquistata così grande autorità se non grazie alla profondità dei suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente intenderlo, ma aver così gran pratica dei suoi libri, che se ne sia formata un'idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla mente; perché egli non ha scritto per il popolo, né si è obbligato a mettere in ordine i suoi ragionamenti col metodo ordinato, anzi, servendosi del perturbato, ha messo talvolta la prova di una affermazione fra testi che par che trattino di ogni altra cosa: e perciò bisogna aver una grande conoscenza delle sue parole, e saper combinar questo passo con quello, combinare questo testo con un altro remotissimo; è non c’è dubbio che chi avrà questa abilità, saprà ricavare dai suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile, perché in essi è ogni cosa.

GALILEO:
E’ chiaro ed evidente che questo metodo sostenuto da Simplicio io lo potrei usare con i versi di Virgilio o di Ovidio, formandone miscugli e spiegando con quelli tutti gli affari degli uomini e i segreti della natura. Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? Esiste un libretto assai più breve d'Aristotele e d'Ovidio, nel quale si contengono tutte le scienze, e con pochissima fatica chiunque se ne può formare una perfettissima idea: e questo è l'alfabeto; e non è dubbio che colui che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con quelle consonanti o con quell'altre, ne caverà le risposte verissime a tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di tutte le arti.
E’ pur vero che bisogna distinguere fra Aristotele e i suoi seguaci: con il trascorrere dei secoli, filosofi e teologi hanno fatto di Aristotele una sorta di idolo, al di là e al di sopra del volere stesso di Aristotele.
Sentiamo un po’ che cosa ne dicono i miei amici Salviati e Sagredo.

SALVIATI:
Non dubito che quando Aristotele vedesse le novità scoperte in cielo, sarebbe disposto a mutar opinione e correggere i suoi libri e accostarsi alle più sensate dottrine, scacciando da sé quei suoi seguaci così poveri di cervello che troppo paurosamente si ostinano a voler sostenere ogni suo detto, senza capire che quando Aristotele fosse tale quale essi se lo figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di barbarie. Sono i suoi seguaci che hanno data l'autorità ad Aristotele, e non esso che se la sia usurpata o presa; e perché è più facile coprirsi sotto lo scudo d'un altro che comparire a faccia aperta, hanno paura e non osano allontanarsi un sol passo, e piuttosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotele, vogliono testardamente negare quelle che vedono nel cielo della natura.

SAGREDO:
Questi tali mi fanno sovvenire di quello scultore, che avendo ridotto un gran pezzo di marmo all'immagine non so se d'un Ercole o di un Giove fulminante, e avendogli dato con mirabile artificio tanta vivacità e fierezza che moveva spavento a chiunque lo rimirava, anche egli cominciò ad averne paura, sebbene tutto lo spirito della statua fosse opera delle sue mani; e il terrore era tale, che più non si avrebbe ardito di affrontare la statua che lui stesso aveva creata.

SIMPLICIO:
Vorrei farvi una domanda: quando si lasci Aristotele, chi potrà accompagnarci e farci da scorta nell’esplorare la filosofia? Nominate voi qualche autore!

SALVIATI:
C’è bisogno di scorta nei paesi incogniti e selvaggi, ma nei luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per scorta.
Io non dico che non si debba ascoltare Aristotele, anzi lodo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo che alla cieca si sottoscriva ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, lo si debba avere per decreto inviolabile. E qual cosa è più vergognosa che il sentir nelle pubbliche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili, intervenire qualcuno con un testo, spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all'avversario?

GALILEO.
Ma quando pure essi vogliano continuare in questo modo di studiare, depongano il nome di filosofi, e si chiamino storici o dottori di memoria. Non è giusto infatti, che quelli che non filosofano mai usurpino l'onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in una discussione infinita, dalla quale in tutt'oggi non si uscirebbe.



Il posto dell’uomo nell’universo



CARDINALE:
A quanto mi si dice, questo signor Galilei toglie l’uomo dal centro dell’universo per confinarlo in un punto imprecisato ai margini di esso. E’ chiaro che il signor Galilei è un nemico del genere umano e va trattato di conseguenza!
Anche i bambini sanno che l’uomo è la gemma del creato, la prediletta creatura di Dio.
Possiamo credere che Dio abbia voluto affidare il suo capolavoro ad un piccolo corpo celeste situato in periferia? Che abbia inviato in un simile luogo il suo unico Figlio? Esistono cervelli pervertiti a tal punto da prestare fede alle parole di questo schiavo della tavola pitagorica? Quale creatura di Dio può tollerare una tale offesa?

MONACO:
Mi raccomando, eminenza, non arrabbiatevi troppo, sapete che il medico ve lo ha sconsigliato... E’ vero, Galilei vuole degradare la terra. Egli par dimenticare che questo è il mondo su cui è nato, su cui ha imparato a camminare, a pregare, a ringraziare Iddio e a sottomettersi ai suoi voleri. Ma non vi tormentate, le sue affermazioni saranno presto dimenticate da tutti e il luminoso insegnamento della nostra santa chiesa continuerà a brillare come unica guida per i dotti come per i popolani.

CARDINALE (furibondo):
Bisogna fermarlo, prima che la sua follia si diffonda. Io non sono un essere qualunque su una stelluccia qualunque che rotola qua e là. Io cammino a passo saldo sulla solida terra, e la terra è immobile ed è il centro di tutte le cose, e io sto al centro dell’universo e l’occhio di Dio sta sopra di me. Intorno a me ruotano le stelle e la grande luce del sole, creata per l’uomo e per ciò che lo circonda. E’ chiaro e indiscutibile che tutto è al servizio dell’uomo, la più sublime fatica di Dio, l’essere centrale che Dio creò a sua immagine e somiglianza, imperitura e....

MONACO:
Eminenza, eminenza! Ecco lo sapevo, non bisognava farlo arrabbiare, oh poveri noi, adesso come facciamo, presto chiamate un medico...

GIOVANE MONACO:
Sono cresciuto nell’Agro Romano, figlio di contadini. Gente semplice, che sa tutto della coltivazione dell’ulivo, ma del resto ben poco. Li ho sempre davanti agli occhi , seduti sulla pietra del focolare mentre consumano la loro misera cena. Sopra le loro teste vedo le travi del soffitto, annerite da secoli di fumo, e vedo le loro mani screpolate e indurite dal lavoro che reggono un vecchio cucchiaio. Non vivono bene, ma perfino nelle loro disgrazie vedo un senso misterioso, un ordine nascosto. Scadenze cicliche: le bestie da nutrire, le piante da potare, le decime da pagare. Le sventure piovono loro addosso con regolarità. La schiena di mio padre si è incurvata lentamente, un poco di più ogni primavera, con i lavori dei campi. Così come i parti, succedendosi a intervalli regolari, hanno fatto di mia madre una creatura senza sesso. Lo spettacolo degli alberi che rinverdiscono ogni anno, la vista del campicello e della chiesetta. la spiegazione del Vangelo che ascoltano la domenica, tutto infonde in loro un senso di continuità, di necessità. Da questo traggono la forza necessaria per risalire, sudati e ansimanti, i sentieri pietrosi con le gerle colme sul dorso, per fare figli, per mangiare perfino. Infinite volte si sono sentiti ripetere che per loro è stato costruito il grande teatro del mondo affinché vi facciano buona prova recitando ciascuno la grande o piccola parte che gli è stata assegnata. Come la prenderebbero, ora, se dicessi loro che vivono su un frammento di roccia che rotola ininterrottamente attraverso lo spazio vuoto e gira intorno a un astro, uno fra tanti e neanche tanto importante? A che cosa potrebbe servire la sacra scrittura, che dimostra la necessità del sudore, della pazienza, della fame, se scoprissero che è piena di errori? Vedo i loro sguardi velarsi di sgomento, e il cucchiaio cadere sulla pietra del focolare; vedo che si sentono traditi, ingannati. Dunque - dicono - nessuno si cura di noi. Siamo noi che dobbiamo provvedere a noi stessi, vecchi, poveri, ignoranti come siamo? Dunque la nostra miseria non ha alcun senso, il sopportare la fatica e la fame non è un merito? Capite adesso perché nel decreto del sant’uffizio ho scorto una grande misericordia materna, una grande sollecitudine per i problemi dei miseri?

GALILEO:
Misericordia materna. Bontà d’animo. Certo, sappiamo benissimo che se i vecchi, i poveri, i malati, gli affamati si convincono che la loro condizione è voluta da Dio, quindi giusta, la sopportano senza lamentarsi, e soprattutto senza ribellarsi. ma la scienza non è fatta per assicurare l’immobilità nei rapporti fra i sovrani e i sudditi, la scienza è fatta per rivelare quali leggi naturali stanno alla base dei fenomeni.

GIOVANE MONACO:
E voi vi illudete che la vostra scienza possa rivelare il significato di tutto ciò che accade?

GALILEO:
Certamente no.
Io non ho mai pensato che la scienza possa aprire le porte all’infinito sapere, ma che almeno le possa chiudere all’infinita ignoranza.

GIOVANE MONACO:
Mettendosi in concorrenza con la teologia, o addirittura sostituendosi a essa?

GALILEO:
No, non abbiate paura. Io credo che teologia e scienza possano tranquillamente convivere.
La prima ci parla di Dio attraverso le parole della rivelazione, la seconda ci parla della natura attraverso il linguaggio delle osservazioni, delle misurazioni e dei calcoli matematici.



L’impossibilità di accettare il cambiamento



CARDINALE:
No, no, no e poi no! La tavola pitagorica non sostituirà mai l’insegnamento della Chiesa, l’unica capace di parlare contemporaneamente ai cuori e alla menti, l’unica capace di mettere in guardia gli uomini dagli agguati del maligno, dai pericoli dal peccato originale che si annida nelle anime.
Tutto diviene possibile quando ci si sottrae alla tutela attenta della Chiesa: ogni assurdità, ogni insensatezza, ogni nequizia. Quando alla fede umile e obbediente si sostituisce la presunzione della ragione, che crede di poter decidere tutto, di poter esprimere il proprio giudizio su ogni problema, le vie dell’errore sono tutte aperte.
Si può forse fondare la comunità dei fedeli sul calcolo di orbite? Si può distinguere il bene dal male osservando gli immaginari monti della luna? Si può trovare stimolo alla virtù della modestia, enumerando gli altrettanto immaginari satelliti di Giove?
E non dimentichiamo, signor Galilei, che voi avete messo in ridicolo la Chiesa alla quale dite di voler appartenere scrivendo un libro in cui le convinzioni dei grandi pensatori su cui per secoli ci siamo fondati sono descritte da un personaggio sciocco e ridicolo, mentre le posizioni dell’eretico Copernico sono messe in bocca ad un personaggio acuto e intelligente. Vi illudete forse che non ce ne siamo accorti?
Attenzione Galilei, fate molta attenzione: la nostra santa Chiesa è una madre amorosa ma proprio perché amorosa è giustamente severa: si preoccupa della sorte dei suoi amati figli più di quanto se ne preoccupino essi stessi.

GALILEO:
Io credo, eminenza, che sempre si debbano tener distinti i due campi sui quali si esercita il nostro sapere: la scienza non può e non deve invadere il campo delle Sacre Scritture, che ci insegnano e ci ammoniscono su come salvare la nostra anima. Ma è giusto che la scienza stessa sia libera di profferire giudizi sulle leggi di natura che governano il creato secondo i divini intendimenti. Queste leggi sono scritte in caratteri matematici e attraverso la matematica possono essere intese. Nelle dispute sui problemi naturali l’unica autorità alla quale si possa far riferimento è quella delle sensate esperienze e delle dimostrazioni necessarie. Le sensate esperienze derivano dall’utilizzare i sensi che Dio ci ha dato affinché possiamo muoverci nel mondo. Le dimostrazioni necessarie utilizzano l’armonia e la perfezione dei teoremi matematici, che in numeri traducono la bellezza e l’armonia del mondo che Dio ha dato all’uomo come teatro nel quale esercitare la propria intelligenza.

CARDINALE:
Superbia, ecco la vostra colpa. La superbia porta a dubitare, e il dubitare porta al peccato. Voi non sentite più il bisogno di Dio e con le vostre macchine che scrutano il cielo credete di acquistare la facoltà di far miracoli. Di superbia si è macchiato l’eretico Lutero, che ha creduto di poter trovare la via della salvazione facendo a meno della Chiesa. Di superbia si è macchiato il monaco Giordano Bruno, che ha creduto di poter riscrivere a suo piacimento i sacri testi. Attenzione Galilei, fate molta attenzione: la nostra santa Chiesa è una madre amorosa ma proprio perché amorosa è giustamente severa.


La condanna


LA SENTENZA DEL SANTO OFFIZIO
Diciamo, pronunziamo, sentenziamo e dichiariamo che tu, Galileo, per le cose dedotte in processo e da confessate, ti sei reso a questo Santo Offizio veementemente sospetto di eresia, cioè d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture, ch’il Sole sia il centro del mondo e che non si muova da oriente a occidente, e che la Terra si muova e non sia il centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto pur che prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li suddetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data.


L'ABIURA DI GALILEO
Volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e di ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me concepita, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonzierò a questo Santo Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo dove mi trovarò.



(Questo lavoro è il frutto della libera elaborazione di testi tratti dal "Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo" di Galileo Galilei - disponibile online presso www.liberliber.it - e da "Vita di Galileo" di Bertolt Brecht, trad. di Emilio Castellani, ed. Einaudi, Torino, 1994)

lunedì 11 ottobre 2010

Victor Hugo: Di chi la colpa?

Nella raccolta L'année terrible Victor Hugo (1802-18885) ha inserito la riflessione che riportiamo qui in parte.


Di chi la colpa?


Tu hai incendiato la biblioteca?

Si, le ho dato fuoco.

Ma è un delitto inaudito! Commesso da te contro te stesso, pazzo!
Hai ucciso la luce della tua anima! Hai spento la tua propria fiaccola!
Ciò che la tua rabbia empia e folle osa bruciare, è la tua ricchezza, il tuo tesoro, la tua dote, la tua eredità!
Una biblioteca è un atto di fede delle generazioni immerse nelle tenebre che nella notte testimoniano l’aurora.
Fra Molière, Voltaire e Kant, in mezzo alla ragione, tu getti, miserabile, una torcia infiammata!
Apri un libro: Platone, Milton, Beccaria; leggi questi profeti: Dante, Shakespeare, Corneille;
La loro anima immensa si sveglia in te; abbagliato, tu ti trasformi in essi;
Leggendo, tu diventi saggio, pensieroso e dolce; senti nel tuo spirito crescere questi grandi uomini.
Il libro entra nel tuo pensiero e scioglie i legami che uniscono errore e verità.
Esso è il tuo medico, la tua guida, il tuo difensore: ecco ciò che tu perdi, e per tua colpa! Il libro è la tua ricchezza!
E’ il sapere, il diritto, la verità, la virtù, il dovere, il progresso, la ragione che dissipa il delirio. E tu, tu lo distruggi!

Non so leggere.

lunedì 25 gennaio 2010

Giorno della memoria

Del male assoluto non si può parlare. E' un buco nero, un abisso senza fondo.